Il “Cristo morto”,
di Enzo Avagliano
Di un artista,
scultore a pieni voti, e anche dolce
disegnatore, e raffinato pittore, e quant’altro
vegeti in lui di diversi significati, anche
artigianali; nonché musicista, suonatore di
zampogna, studioso dell’argomento, di
particolare attenzione; di lui è ora da dirsi
senza retorica che delle plaghe campane è autore
che suscita interesse, proveniente egli dalla
scuola di impegno storico di Giovanni De
Vincenzo, già dell’Accademia di Belle Arti di
Napoli, presso la quale si sono formate più
generazioni, lui della terza, da cui sono emerse
capacità e valori come di Ernesto Pengue,
Giovanni Mancini, Paolo Iacomino e Antonio Di
Rosa che, con pochi altri, come il Nostro,
rappresentano oggi nel Sud dei forti pilastri
figurativi. Egli ha una spiccata distinzione; e
non solo perché è molto informato per pratica
continua del come possa realizzarsi una nobile
figura, ma anche perché la sua inclinazione al
classico lo tiene attanagliato a quei valori che
arrivano da secoli della nostra storia dell’arte
nella conduzione di un fare secondo una visione
antica dello scolpire e del dipingere, di cui
sono i tratti indelebili di una anatomia precisa
con l’esaltazione evidente delle posture con
attenta lettura del corpo senza che ne venga
trascurato niente per una pura chiarezza. Ne
diamo nell’essenzialità questa esposizione per
un’occasione bene illuminante capitataci nel suo
studio in Castel San Giorgio, di Salerno, ove
per il tempo impegnato a osservarne le opere
avremmo potuto fumare chissà quanti sigari,
seguendo il detto del meditativo critico
pugliese d’altri tempi Francesco Netti, il quale
sosteneva che per ben conoscere un artista ci si
deve soffermare molto a seguirlo nel lavoro. E
qui, preso a osservarlo, ne abbiamo valutato
un’opera che abbiamo ritenuto di spiccato
valore: un “Cristo morto”, a misura naturale,
di
notevole spessore, perché in essa è come il
passaggio sulla maggiore scultura nostra,
meridionale, in primo luogo della cappella di S.
Severo in Napoli, come del Sansovino, e dello
stesso Michelangelo. Ma il lavoro di Avagliano
non è solo classico. Sotto ogni profilo in lui
si adagia una definita modernità, assecondata da
rilievi anatomici capillari: il corpo nel giusto
equilibrio in tutte le parti essenziali,
rigorosamente descritto nel volto, nella
capigliatura, nel bacino, negli arti, persino
nelle unghie delle mani e dei piedi, illuminati
nei dettagli dovuti. Un “Cristo morto” che nulla
ha da invidiare a quanti altri, nella loro
autenticità, se ne vedono in esecuzioni
perfette. Il senso dell’abbandono di tutti gli
arti di questo cristo ha un rigore inequivoco in
ogni peculiarità, in sostanza nella natura della
vita che, trapassata, non è più, ma che anche
nelle fattezze corporali custodisce la
fisionomia prospettica della morte; un corpo del
quale l’immagine riporta appieno il carattere di
una inconfondibile realtà. Tutto è armonia, e
tutto riflette, nella poetica di un disfacimento
non ancora avvenuto, l’acquietamento del corpo
dopo il dolore con una mitezza che riguarda il
carattere esistito dell’Uomo che ormai non è
più, ora senza spirito volato al cielo, ma che
persiste in un gioco ammantato da un pensiero di
tristezza e dimensione di vita altra
nell’abbandono che induce a considerare il
raggiunto equilibrio corporale dopo il travaglio
della morte. Vi è un’intuizione spirituale, con
la trascendenza di una qualità, la sola che può
dirsi di un linguaggio universale, segnatamente
come esempio di cultura della grande scultura
figurale. Nel dire tutto questo, Avagliano
mostra la qualità del vero scultore, quello
dell’impronta della natura umana.
Mario Maiorino
Dal Catalogo della
mostra "LA PASSIONE - II edizione internazionale
di arte sacra"
Giffoni Valle Piana
; Marzo-Aprile 2002 |